lunedì 31 ottobre 2011

La biografia filmata di Michael Jackson, il 23 novembre in Italia

Il lancio mondiale ufficiale di Michael Jackson: The Life Of An Icon, biografia in versione filmica di Michael Jackson, è fissato per il 2 novembre a Londra. Il 23 novembre il film sarà distribuito in versione Dvd anche per il mercato italiano, a cura della Universal.

La produzione è di David Gest, organizzatore di concerti che ha seguito fin dagli esordi la carriera dei Jackson Five e che è fra l'altro molto noto per essere ex-marito di Liza Minelli nonché per le sue numerose apparizioni in talent show musicali prodotti per circuiti televisivi britannici e statunitensi.

Michael Jackson: The Life Of An Icon è strutturato in forma di documentario, con interviste o apparizioni della madre di Michael, Katherine, della sorella Rebbie e del fratello Tito. Per la prima londinese del film, che si terrà presso l'Empire Leicester Square, è confermata la presenza dei familiari che compaiono nella pellicola.

Ma il film - diretto dal documentarista Andrew Eastel - conta su molto più che questo per tracciare con completezza il quadro biografico del cantante. Sono più di cinquanta le interviste filmate montate nel documentario, col coinvolgimento così di tutte le persone che, a vario titolo, hanno conosciuto e collaborato con Michael Jackson durante la sua carriera.



Michael Jackson: The Life Of An Icon - Trailer



domenica 30 ottobre 2011

"Wild Cards", a cura di George R. R. Martin, arriverà in TV?

Il canale televisivo statunitense Syfy Films, specilizzato in produzioni filmiche horror, fantascientifiche, fantastiche e - specialmente - supereoistiche, ha annunciato di aver comprato i diritti di trasposizione TV per la serie di antologie Wild Cards.

La pubblicazione della serie antologica Wild Cards va avanti dal 1987 ed è curata dallo scrittore George R.R. Martin, più noto al grande pubblico come autore della saga fantasy Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (o Game of Thrones, nella sua versione televisiva).

I volumi Wild Cards pubblicati fino a oggi sono 22. Ogni volume contiene racconti supereroistici scritti da noti scrittori o sceneggiatori specializzati in fantasy e fantascienza, quali Roger Zelazny, Walter Jon Williams, Chris Claremont, Paul Cornell e molti altri.

I racconti sono ambientati in un universo narrativo condiviso nel quale varie persone hanno acquisito superpoteri a seguito dell'infezione da parte di un virus, e l'apporto di Martin si occupa sopratutto di dare continuità a quelli che sono - di fatto - racconti abbastanza scollegati. Il primo volume della serie è stato edito anche in italia da Rizzoli (ne vedete la copertina nell'immagine).

Non è improbabile che lo scopo dell'acquisizione di questi diritti sia la creazione di una serie TV in un eventuale stile "George R.R. Martin Presents" ossia che sia proprio il nome di Martin a rendere commercialmente appetibile la trasposizione televisiva delle antologie.

Fonte: SuperHeroHype



giovedì 27 ottobre 2011

Prime immagini per Frankenweenie di Tim Burton

Ho parlato a lungo di Frankenwennie (vedi qui per maggiori dettagli), lungometraggio in animazione in stop motion al quale il regista Tim Burton sta lavorando per Walt Disney Pictures.

Entertainment Weekly ha diffuso le primissime due immagini di anticipazione sul film. Poca roba ma quel poco che si vede mette già l'acquolina in bocca.

Si nota subito che l'atmosfera visiva del film non dovrebbe essere molto lontana da quella del primo cortometraggio di Burton, Vincent. L'uscita del film è prevista per ottobre 2012.


Il povero cagnolino Sparky è ancora vivo e vegeto... e senza punti di sutura

Ora è definitivamente defunto... ma forse c'è ancora qualcosa che si può fare per porre rimedio

Tim Burton con i pupazzi utilizzati per le riprese del film



Recensione: Voodoo #1 (The New 52)

Revisione completa per Voodoo, alias Priscilla Kitaen, ex membro dei WildCats di Jim Lee e ormai da tempo, dopo l'acquisizione definitiva della linea Wildstorm, inglobata in DC Comics.

La danza è sempre stato un aspetto centrale nella caratterizzazione di Priscilla. Già la prima vignetta in cui la ragazza compare, nel lontano 1992, ce la mostrava esibirsi sul palco di un locale di lap dance o qualcosa di simile. La scena suggeriva più che mostrare esplicitamente, perché per quanto i vecchi albi Image Comics non fossero strettamente vincolati al codice di autocensura, si adeguavano in larga parte alla pudicizia prevalente nel mercato.

Pudicizie che ora non esistono più, per fortuna e purtroppo: è fantastico cominciare a leggere la prima uscita di una nuova serie di fumetti e scoprire invece che si sta leggendo un feticcio di Playboy. Almeno là ci sono foto e non disegni. Come lettore c'è da sentirsi un pochetto gabbati.

A livello puramente estetico le modifiche apportate alla esotica danzatrice sono una maggiore accentuazione delle sue origini etiche (colorazione della pelle inequivocabilmente ispanica) e la scomparsa dei tatuaggi.

Peeerché ce l'avete richieeeestaaa!!!
A livello meno esteriore Priscilla Kitaen continua a portare dentro di sé qualcosa di mostruoso. In passato si trattava di sangue (o DNA) Daemonita, antica razza a metà fra l'alieno e il sovrannaturale. Ora pare trattarsi di un qualcosa di completamente diverso, risultato della contaminazione con una sostanza derivata da un esperimento militare.

Il numero non ha una vera e propria trama e si limita a fornire qualche informazione di base, al momento abbastanza lacunosa. Fra una esibizione di Priscilla sul palco di un locale di strip tease (5 pagine), dialoghi che dovrebbero caratterizzare il personaggio ma in verità servono più che altro a mostrarci i camerini delle strippers (3 pagine) e infine un'altra esibizione di strip in privato (4 pagine), la lettura viene conclusa senza ottenere indizi su dove si voglia andare a parare.

Questa tipa tosta è sulle tracce di Priscilla
In due parole la non-trama è questa: una coppia di agenti (un uomo e una donna), che lavorano per una qualche organizzazione, tengono d'occhio Priscilla e sembrano sapere molte cose su di lei.

L'uomo però fa una brutta fine quando, durante lo strip privato, comincia a sciorinare troppe domande sul passato della ragazza, provocando il lei la trasformazione in un essere mostruoso.

Per ora sembra insomma che si giochi su nulla più che il classico schema Dr Jekyll / Mr Hyde e al più su una caccia all'uomo (anzi, alla donna, dato che Priscilla è infine costretta a dileguarsi).

Lo stile di disegno di Sami Basri è fotografico e non troppo stucchevole: anatomie proporzionate e armoniose, discreta capacità di resa nelle poche scene dinamiche che qui compaiono, linee morbide e sottili, nessu tratteggio o campitura di nero interna. Con l'aggiunta di effetti di luce piacevoli e colori molto uniformi e altrettanto piacevoli.

Tutte scelte che rendono bene l'effetto patinato ma che lasciano affamati di qualcosa di più sostanzioso. Più precisamente è difficile immaginare come questo stile potrà essere realmente efficace per raccontare null'altro che le scene di stripping.

Come proseguirà la serie? Lo strip è stato già fatto, e ora cosa resta? Lo sceneggiatore Ron Marz avrà in mente qualcosa (conoscendo i suoi trascorsi, però, ne dubito) ma al lettore non ha rivelato, e neanche suggerito, ancora nulla.


mercoledì 26 ottobre 2011

Recensione: BlackHawks #1 (The New 52)

Durante la seconda guerra mondiale, i comics hanno svolto nella cultura popolare Usa un ruolo di primissimo piano. Cavalcavando gli interessi del pubblico per il semplice fatto di dover vendere, come è normale che sia sempre, riuscivano ad agganciarsi al patriottismo spicciolo della gente fino a diventare (più o meno volontariamente) anche strumenti di propaganda bellica.

Lo squadrone di piloti Blackhawk è stato creato nel 1941 nientemeno che da Will Eisner per la Quality Comics, una casa fumettistica successivamente acquisita da DC Comics. Il titolo all'epoca era così popolare da conquistarsi anche gli onori di un radiodramma.

Nel 1987 una nuova brillante versione per gli eroici Blackhawks (nome collettivo dei piloti dello squadrone) è stata gestita da un altro grande del fumetto americano: Howard Chaykin. L'ambientazione era ancora quella della seconda guerra mondiale, e un riuscitissimo gusto retrò costituiva il punto di forza della serie.

Perché recuperare i Blackhaws? La ragione è sempre quella della diversificazione massima di proposte che DC Comics sta tentando in questo rilancio.

Ovvio però che non è più tempo per raccontare le imprese di piloti immersi in un mondo bellico che risale a settanta anni fa. Meglio convertirlo in titolo tutta azione, centrato su dei ben più malleabili soldati di cartapesta. Solo così si può mantenere ancora ben premuto il piede sull'accelleratore dell'eroismo esasperato.

Più che soldati, quindi, per la serie servivano dei soldatini. E i G.I.Joe rappresentano il modello ideale a cui ispirarsi, col vantaggio che rispetto a tanti altri marchi analoghi essi godono già da anni di numerosi adattamenti a fumetti, con licenze che migrano da casa in casa (Marvel, Image, Devil's Due Publishing, IDW Publishing).

Gli schemi cui ispirarsi e già ampiamente collaudati non mancano di certo, e meglio ancora se nell'operazione Blackhawks si imbarca anche lo sceneggiatore Mike Costa, che ha già lavorato sull'ultima serie dei G.I.Joe fumettistici.

In Blackhawks #1, però, si respira un'aria leggermente migliore rispetto a quello che potrebbe essere un semplice clone dei G.I.Joe. Si tratta pur sempre di una serie immersa nel DC Universe, con tutti i vantaggi che ne possono derivare. Per ora non si fa molto riferimento esplicito ad aggiunte supereroistiche, ma tutto fa presumere che questi elementi di contorno potrebbero essere stabilmente sfruttati in futuro. 

Se azione deve essere, azione sia! L'albo entra subito nel vivo di una spettacolare sequenza disegnata da Graham Nolan e centrata sull'agente Kunoichi (ogni soldatino che si rispetti lo conosciamo solo ed esclusivamente con il suo nome di battaglia). Donna e combattente tenace, ma non per questo meno femminile, Kunoichi si trova a essere infettata da alcuni dispositivi nanotecnologici mentre svolge di una missione per conto delle Nazioni Unite.  

Nel resto dell'albo viene preparata la trama a lungo termine, che presumibilmente ruoterà attorno alla progressiva trasformazione della donna in un supersoldato nanopotenziato. Altri elementi inframmezzati a questo plot sono funzionali alla presentazione dei numerosi componenti della squadra militare, e a quella degli antagonisti (i soliti terroristi hi-tech altrettanto dotati di nanotecnologia).

Funziona tutto benissimo in questo fanta-action militare, ma la premessa naturalmente è quella che è. L'arte di Graham Nolan è in buon equilibrio fra una non pedante costruzione della tavola, un tratto sicuramente dotato e accattivante e il ripudio di sofisticazioni eccessive che potrebbero rendere il titolo poco digeribile al suo pubblico potenziale. 

Da leggere, se è il vostro genere. E da dimenticare subito dopo.


Recensione: I, Vampire #1 (The New 52)

Sulla falsariga di I, Robot, il titolo I, Vampire riecheggia lo stesso intento. Il suggerimento subliminale che si lancia al lettore è che questa sarà la serie ultima per ridefinire la figura del vampiro nei comics.

Ovviamente così non è, perché realizzare una tale ambizione è fuori dalla portata di qualsiasi intelletto. Non c'è alcuna variazione sul tema in fatto di vampiri che non si sia già vista centinaia di volte altrove. Ma c'è da ammettere che il titolo è geniale, di certo in grado di catturare immediata attenzione.

Andrew Bennett viene ripescato dalle pagine di House of Mystery, vecchia collana horror della DC Comics, nella quale J.M. DeMatteis e Tom Sutton proposero il personaggio per la prima volta e senza molto successo.

L'idea di base non ha nulla di originale: Andrew è il vampiro "buono", quello che pur non essendo più umano si batte perché l'umanità non soccomba di fronte all'aggressione vampiresca. Mary è la sua ex, e lei nella condizione di vampiro ci sta così bene che ha ingaggiato una vera e propria guerra santa (ops!) contro gli umani.

Mary
Vampiri "buoni" contro quelli "cattivi" come metafora psicologica delle dinamiche oppressive che si creano fra popoli o razze, quindi. Detta così suscita uno sbadiglio e basta. Senonché I, Vampire #1 è davvero tutto da leggere per poter valutare appieno. Semplicemente eccelso, e molto promettente per il seguito della serie.

C'è il merito della parte grafica anzitutto. Di albi ben disegnati ce ne sono tanti altri, ma il lavoro di Andrea Sorrentino ha davvero una marcia in più: umorale e d'atmosfera, in grado di mescolare con disinvoltura atmosfere noir, splatter, filosofiche e intimiste, e a proprio agio con la resa sia di paesaggi naturali che urbani.

Tavole che riescono ad avvolgere il lettore con una atmosfera onirica e magica, zeppe di vampiri che tutt'altro che archetipi ormai logorati, in queste pagine prendono realmente vita.

Lo script di Jousha Hale Fialkon è altrettanto virtuoso. Andrew non è un idealista illuso. Sa bene di combattere una guerra che alla lunga dovrà perdere, e il suo animo è schiacciato da sensi di colpa che pesano come una pietra tombale. Ma non può fare altro che agire compulsivamente così.

Per contrasto, il pezzo forte della caratterizzazione sta nella carica magnetica che Mary sembra sprizzare fuori da ogni pagina, nonostante l'assenza di espedienti sensazionalistici per ricercare questo effetto.

Schermaglie sentimentali
Con le sue parole Mary irretisce Andrew, facendo leva sui suoi rimorsi per tentare di portarlo dalla propria parte. Un continuo gioco sottigliezze psicologiche, allusioni e simbolismi, che restituisce perfettamente quella sensualità che è la vera ragione del fascino del vampiro.

La struttura della narrazione può spiazzare all'inizio, poiché si svolge metà nel presente e metà in un flashback per illustrare i rapporti fra i due ex amanti. Inoltre è da valutare quanto fiato possa avere, sul lungo termine, la corsa di un titolo come questo. Nel numero di esordio tutto è ben calibrato, ma ovviamente bisognerà attendere le succesive evoluzioni per capire se con questi elementi di base si potrà giocare a lungo.

Caratterizzazioni eccellenti, interazioni credibili fra i personaggi, dialoghi magnetici, ottima struttura dello script e arte fantastica. Che cosa chiedere di più?


martedì 25 ottobre 2011

Recensione: Red Hood and the Outlaws #1 (The New 52)

Per cominciare l'unica nota positiva dell'albo: Kenneth Rocafort ha un tratto brillante e una inventiva inesauribile nella costruzione, anzi nella decostruzione, delle tavole. Roba che sembra di vedere Whilce Portacio, Mark Silvestri e Rick Leonardi fusi in un unico disegnatore. Per un titolo tutta azione, versione moderna delle scorribande western, Rocafort è l'unica cosa che funziona.

Per Red Hood and the Outlaws #1 viene costruito un team con tre personaggi che più disomogenei di così non si può. Le logiche con cui sono stati scelti sfuggono alle possibilità di comprensione, per spostarsi nell'area delle cose che "voi umani non potreste mai immaginare".

Il titolare principale della serie (Red Hood) è quel Jason Todd che fu il secondo Robin, defunto molto tempo fa per mano del Joker ma poi riportato in vita (non del tutto sano di mente) grazie alla rigenerante Pozza di Lazzaro di Ra's al Ghul.

Red Hood e Arsenal
Poi abbiano Roy Harper alias Arsenal, ex pupillo di Green Arrrow e in sostanza sua versione alternativa meno rigorosamente rispettosa di un proprio codice morale interno. Harper è ancora abbastanza scanzonato ma leggermente meno enfant terrible che nel passato.

E infine Starfire, principessa aliena del pianeta Tamaran, che qui viene riportata - con qualche ammiccamento puerile - alla versione ingenua a oltranza degli anni '80. O almeno questo è quel che molto maldestramente si prova a fare.

Prima parte dell'albo: sparatoria contro non si sa bene chi e perché (Todd libera un Harper tenuto prigioniero da alcuni arabi).

Starfire
Seconda parte dell'albo: balbettii di varia natura scambiati fra i personaggi e la presa in carico di una nuova missione commissionata da una donna misteriosa di nome Essence.

Nessuna convincente caratterizzazione dei singoli membri del gruppo e nessuna spiegazione su quale sia la colla che tiene in piedi il gruppo stesso, a parte il fatto che Starfire si concede sessualmente a entrambi i suoi compagni (anche se si osa mostrarlo chiaramente solo in uno dei due casi). 

Quest'ultimo dettaglio ha sollevato fiumi di polemiche indignate fra i lettori e obbligato DC a formulare risposte ufficiali altrettanto vuote. Ma a fronte di così poca sostanza narrativa messa in piedi da Scott Lobdell, tutto in Red Hood and the Outlaws #1 (e non solo il capitolo Starfire) sembra essere parte di una provocazione cercata e voluta.

La speranza, forse, era quella di fomentare gossip attorno a un titolo che per ora non ha nulla da offrire e che sembra assemblato a casaccio come mero tentativo di mettere in piedi una pessima serie in stile Image Comics della prima ora.

Se questo era lo scopo, il titolo è perfettamente riuscito.

DC Comics Reboot: The New 52 - tutte le recensioni

Burton vs Nolan

Hey, non preoccuparti. Anche la mia carriera è morta dopo Batman




Recensione: The Fury of Firestorm #1 (The New 52)

Le ragioni editoriali delle scelte compiute per il rilancio DC Comics su molte testate sono immediatamente comprensibili. Per altre invece bisognerebbe essere nella testa di Dan DiDio e Jim Lee (o almeno avere una visibilità precisa dei dati di vendita pregressi) per sperare di decodificarle.

Firestorm The Nuclear Man - ennesino supereroe generato da un incidente atomico - non si può certo considerare il personaggio più gettonato della casa, ma ha svolto ruoli chiave nelle saghe Blackest Night e Brightest Day, entrambe specificatamente dichiarate come ancora valide dopo il reboot del DC Universe (salvo poi che a leggere alcuni albi del reboot c'è da dubitarne).

Inoltre, secondo un sondaggio compiuto dalla rivista Wizard anni fa, i lettori americani considerano Firestorm il nono personaggio più potente dei comics di tutti i tempi, dove con potente si intende proprio riferirsi alla "potenza bruta" dei suoi poteri. Per le logiche quasi puerili di approcio dei lettori americani ai fumetti, questo è un fatto che semplicemente non può essere ignorato.

Firestorm viene quindi ripreso anche nel rilancio, ma era lecito attendersi che nulla venisse buttato via del faticoso lavoro svolto (per oltre un anno) da Geoff Johns al fine di raccontarci il ritorno di Ronnie Raymond dalla morte e la sua fusione con Jason Rusch in un Firestorm tutto nuovo.

Invece no, si azzera di nuovo tutto. Non c'è mai stato un Firestorm prima nell'universo DC, e The Fury of Firestorm #1 è ancora una volta un racconto di genesi del personaggio.

Il plot di più lunga gittata è opera di Ethan Van Sciver e Gail Simone, ma ai testi c'è la sola Gail Simone. Nonostante la buona reputazione della sceneggiatrice, dall'abo d'esordio non si riesce a dedurre nulla su cosa si abbia intenzione di fare con Firestorm.

La genesi del supereroe occupa buona parte del numero, con l'effetto ben poco drammatico (direi quasi patetico) generato dal vedere i due liceali Ronnie Raymond e Jason Rusch fondersi per trasformarsi nell'uomo nucleare mentre sono impegnati in un'accesa discussione davanti agli armadietti scolastici.

Quella che era la peculiarità di Firestorm (l'essere guidato da due diverse volontà in disaccordo su tutto) viene accentuata fino a livelli piuttosto irritanti. Nei battibecchi fra Raymond e Rush la novità è che stavolta si sta calcando molto la mano sulle tensioni a sfondo razziale (Raymond è nero, Rush è bianco). Spunto potenzialemnte interessante, ma allo stato attuale i loro ligiti risultano soltanto puerili.

Raymond e Rush qui sono ancora separati
ma si fonderanno in... qualcosa!
La prima parte dell'albo invece ci mostra un gruppo di spietati terroristi alla ricerca delle (ridicole) bottigliette nucleari che sono alla base della stessa genesi di Firestorm, con condimento di una scena noir di crudeltà semplicemente tremenda (vero marchio di fabbrica di Simone).

A lettura conclusa, la fiducia a Gail Simone andrebbe concessa solo sulla parola. Quest'esordio è davvero penoso e le caratterizzazioni,  a esser buoni, sono molto abbozzate e incerte.

I disegni di Yildiray Cindar sono ordinari, senza guizzi artistici particolari, capaci di moderato vigore solo nelle scene d'azione. Probabilmente non è neanche completamente colpa sua, dato che la colorazione di Steve Buccellato tende a impastare un po' tutto, colori e chine, nel tentativo maldestro di inseguire un effetto pastellato.

Forse bisognerebbe essere un adolescente per godersi questo The Fury of Firestorm #1. O almeno essere quel modello teorico di adolescente a cui Gail Simone e i suoi dirigenti pensano che i loro lettori dovrebbero conformarsi.


lunedì 24 ottobre 2011

Recensione: The Savage Hawkman #1 (The New 52)

Questo è uno di quei casi in cui si può capire molto di una serie dalla copertina del suo primo numero. E cosa c'è sulla copertina di The Savage Hawkman #1?

C'è uno spettacolare Hawkman meravigliosamente decorato dall'arte di Philip Tan e dalla colorazione ed effetti di luce di Sunny Gho, dotato di un aspetto realmente selvaggio (come promette il titolo della testata) e poi... e poi non c'è più niente. Sfondo bianco.

Nessuna informazione su cosa si abbia intenzione di costruire attorno a Hawkman, nessuna indicazione su quale dei trascorsi retroterra mitologici si intenda adottare (L'antico Egitto? Il bellicoso pianeta Thanagar? Qualcosa di completamente nuovo?), nessun elemento che suggerisca chi sia l'uomo che indossa le ali di metallo "Nth".

Precisamente, l'uomo è di nuovo di Carter Hall, storicamente il primissimo alter ego di Hawkman. Ma è solo un nome, non un personaggio.

Contro i Doppelgangers dell'alieno
(per non farsi mancare nulla).
Il vuoto spinto della bellissima copertina riecheggia in ogni pagina dell'albo. A giudicare da quest'esordio la serie avrà un unico scopo e un unico tema: riconsegnare al nuovo universo DC l'icona Hawkman, con l'unica novità che le ali non sono più montate sul petto per mezzo di una bardatura. Ora spuntano a comando direttamente dal corpo (e altrettanto fa il resto dell'armamentario) senza che Carter sia costretto a indossare nulla.

Questo aspetto, assieme all'aggettivo savage che da sempre etichetta il personaggio, fa pensare che l'idea di base del reboot si limiterà a fornirci una versione Wolverine-style dell'uomo-falco, con una svolta verso l'involontaria comicità nel momento in cui lo vediamo trasformarsi di punto in bianco da Carter a Hawkman.

La storia si apre con Carter Hall che sembra aver deciso di porre una divisione netta fa lui e Hawkman. Si disfa perciò dei vecchi bardamenti, e a questa azione seguono fiamme e lampi di luce senza una riga di spiegazione. Carter si ritrova a svegliarsi stordito in un magazzino, evidentemente adottato come abitazione.

Dietro a Hawkman compare
una presenza... di cui nulla si sa
Nel frattempo una spedizione scientifica ha recuperato dagli abissi dell'oceano una mummia aliena e Carter (in virtù di non si sa bene quale competenza scientifica, dato che lui è un archeologo) viene coinvolto nell'esame del reperto.

La mummia prende vita, al suono altisonante di frasi ridicole come "Io sono Morphicius" e allungando ovunque le sue propaggini liquide in stile Venom. Carter si scopre capace di trasformarsi in Hawkman, avviando con l'alieno un amichevole scambio di opinioni a suon di mazza ferrata.

I testi di Tony S. Daniel (che su Detective Comics sta lavorando benino) sono quanto di più stereotipo e svogliato si possa immaginare. Dialoghi piatti, spiegazioni rimandate al futuro ma senza indizi che rassicurino a sufficienza che questi chiarimenti siano davvero in programma.

L'unica cosa che regge l'albo è la parte grafica, che si mantiene però volutamente grigia (su atmosfere quasi deprimenti) fino al momento in cui Hawkman appare in tutto il suo splendore. E quando l'uomo-falco appare, risulta effettivamente tanto accattivante da rubare la scena a tutto il resto. Il resto? Quale resto?

Se siete dei fans del personaggio vale la pena dare ancora una occhiata ai numeri successivi, perché l'arte è davvero bella. Ma non c'è da dubitare che la corsa di questa serie sarà piuttosto breve se l'approccio ai testi non cambierà radicalmente.

DC Comics Reboot: The New 52 - tutte le recensioni

domenica 23 ottobre 2011

Recensione: Legion of Super-Heroes #1 (The New 52)

Se Legion Lost #1 (recensito qui) ci ha mostrato metà della Legione dei Supereroi spostarsi in missione nel 21° secolo, questo Legion of Super-Heroes  #1 si dedica a raccontarci dell'altra metà del gruppo. Quella rimasta cioè nel futuro del 31° secolo, che è l'epoca natia dei Legionari.

L'albo risponde quindi alla domanda: "metà della Legione è rimasta nel futuro esattamente a far che"? Bè, diciamo... a fare le solite cose.

Non importa quanto la Legion of Super-Heroes costituisca un pezzo di storia nell'ambito del DC Universe. Quel che conta davvero sono le sue premese narrative di base, che potremmo cinicamente riassumere in questo modo: c'è un gruppo di supereroi in un fumetto di fantascienza. Il che dice tutto e niente.

Il niente sembra essere il vero, autentico tessuto narrativo della Legione. Sceneggiatori eccelsi come Mark Waid e Geoff Johns si sono occupati di scrivere le loro avventure ottenendo invariabilmente non-trame messe in scena da tante marionette colorate, con sullo sfondo un qualche cielo galattico.

Una lunga sequenza di vignette come
questa: "personaggio più descrizione"
L'ultimo sceneggiatore a occuparsi della Legione, prima del rilancio, è stato Paul Levitz, ed è ancora lui che continua a occuparsene ora. Nella prima pagina fa subito riferimento a eventi precedenti, e infatti di reboot qui non se ne troverà un pezzetto neanche a cercarlo col lanternino. La cosa è apparentemente strana, perché la Legione - nella sua storia editoriale moderna - ha subito non meno di sei reboot.

Il punto è che il gruppo non cattura e non potrà mai sperare di catturare larghe fasce di lettori (men che meno nuovi lettori). Fa presa solo su un gruppo ristretto di fans sfegatati, che essendo anche gli unici lettori non potevano essere frustrati da un azzeramento della situazione. Un rilancio pigro e pessimisticamente (o realisticamente) rinunciatario a priori d'ogni innovazione.

La storia? No, credetemi... non ho capito quasi nulla. Confesso di conoscere ben poco delle trame pregresse, quindi parto sicuramente svantaggiato, ma la lunga esperienza da lettore di centinaia di titoli diversi mi rende confidente del fatto che posso individuare a colpo d'occhio la differenza fra un fumetto incomprensibile a me e uno incomprensibile a quasi chiunque.

Una rapida esplorazione fra alcune recensioni d'oltreocano mi ha rassicurato sul fatto che non sono il solo ad avere molta difficoltà nel tirare fuori un senso da questo guazzabuglio di supermarionette. Chameleon Boy, Ultra Boy, Phantom Girl, Dragonwing, Chemical Kid, Comics Boy, Comet Queen, Dream Girl, e molti altri. Tutti personaggi che esauriscono la loro caratterizzazione nel nome di battaglia.

Glorith
Quando ogni tre pagine c'è una tavola che ha l'unico scopo di introdurre quattro nuovi diversi personaggi (con l'aiuto di pompose didascalie) si ha la conferma che di sostanza ce ne sia ben poca. In più, rispetto a Legion Lost #1, sembrerebbe mancare persino un reale senso dei pericoli che i protagonisti possono correre.

I loro colleghi stanno sudando sette camice in un'epoca che non è la loro, ma i legionari nel 31° secolo si limitano a cianciare di effetti connessi a Flashpoint, la pretestuosa saga a base di universi alternativi che ha introdotto il reboot. E la presenza di Glorith rassicura prematuramente sul risultato finale: i poteri di costei sono in larga parte sconosciuti, ma comunque capaci di manipolare energie e futuri alternativi.

Mentre leggi sai già che non c'è nessun pasticcio che non possa essere messo a posto con un espediente quasi magico e che nessuna delle marionette colorate che vedi tanto agitarsi si farà male davvero.

I disegni di Francis Portela sono invece molto migliori rispetto a quelli Pete Woods visti in Legion Lost #1. Costruzione delle tavole meno ingessata, anatomie più armoniose, prospettive più sofisticate, espressioni più vivide. Una abilità da storyteller di maggior mestiere, per raccontare però una non-storia. Si tratta solo di una bellissima confezione che incarta il nulla.

DC Comics Reboot: The New 52 - tutte le recensioni

sabato 22 ottobre 2011

Recensione: All Star Western #1 (The New 52)

Il genere western è morto e sepolto da decenni, non solo nei fumetti ma anche al cinema e in ogni altro fenomeno pop (qualcuno compra ancora giocattoli di cowboys e indiani ai propri figli?).

Ma il cacciatore di taglie Jonah Hex è stato a lungo un fiore all'occhiello per DC Comics ed è riuscito a vivacchiare molto dopo che altri titoli analoghi erano scomparsi. Nel 2010 ha anche goduto (si fa per dire) di un disastroso adattamento cinematografico.

Poco prima del rilancio DC, gli sceneggiatori Justin Gray e Jimmy Palmiotti erano impegnati su una serie regolare dedicata a Jonah Hex, che sfornava albi di qualità talmente eccelsa da rendere improponibile accantonare per sempre un prodotto così riuscito.

Nonostante tutto, la serie non vendeva abbastanza. E allora ecco che altri media vengono in soccorso per proporre la soluzione: al cinema il western gode tutt'oggi di sporadiche apparizioni, a patto che si ricorra alla contaminazione con altri generi. Ne è un esempio (artisticamente carente ma commercialmente interessante) il recente film Cowboys contro Alieni.

E la splash page di apertura per All Star Western  #1 ad opera di Moritat (le cui matite si affiancano al duo di sceneggiatori già citato) mette subito in chiaro quale sia la contaminazione che si ha in mente in questo caso: Jonah Hex scende dal treno alla stazione della Gotham City del 1880.

Una piccola disgressione: Gotham è sicuramente adatta a fare da scenario per la serie, o per lo meno per il suo esordio. La crudeltà intrinseca della città, la sua natura dannata che affonda le radici in eventi antichi, è stata reinventata numerose volte negli albi Elseworlds (versioni alternative) dedicati a Batman.

Come impatto immaginativo la contaminazione fra il west e il mondo dell'uomo pipistrello funziona benissimo. Tecnicamente però Gotham è una versione immaginaria di New York o, al più, di Chicago, il che non è geograficamente una collocazione particolarmente estrema per il West.  

Fra una sparatoria adatta a presentare le capacità di Hex come bounty killer è una scazzottata nel saloon per mettere in chiaro che si tratta pur sempre di un gioco attorno agli stereotipi del vecchio west, viene avviata la trama di più largo respiro.

Un serial killer sta disseminando la città di cadaveri di prostitute barbaramente massacrate (ecco quindi contaminazioni anche con altri generi: il police procedural e il thrilling venato di sfumature horror).

Lo psichiatra Amadeus Arkham (dove ho già sentito questo cognome?) viene ingaggiato assieme a Hex per scovare l'assassino e assicurarlo alla giustizia.

Ci sono due approcci per giudicare l'esordio di All Star Western: il primo è godersi l'albo come rivisitazione della storia di Gotham, divertendosi a scovare tutte le citazioni batmaniane. E' chiaro che una interpretazione del genere aiuta la serie a ben partire, ma non può giustificarne a lungo l'esistenza.

L'altro approccio è quello di giudicare la storia puramente per la sua appartenenza al genere western che campeggia nel titolo. La lentezza che si avverte durante la lettura è voluta e ottenuta sapientemente, aiutata anche dall'alto numero di tavole (ventotto).

Ciò comunica quel senso di dilatazione temporale che è alla base di molte epiche western, rendendo possibile al lettore non solo entrare pian piano in un racconto ma in un intero mondo che solo apparentemente è spartano per spettacolarità.
 
E poi c'è Moritates. Intagliatore fine di pose, inquadrature, atmosfere, espressioni. Con l'accompagnamento di una colorazione in cui predominano i toni grigio e marrone (colori del fango e della terra) e di chine marcate e a tratto spesso, ogni vignetta è come un dagherrotipo d'epoca.

Lettura assolutamente sconsigliata se soffrite di allucinazioni auditive, dato che è impossibile che non vi sovvengano alla mente le musiche di Ennio Morricone. Perché quest'albo riuscirà a rapirvi davvero.


Recensione: Justice League Dark #1 (The New 52)

La parola "dark" è talmente abusata per connotare le atmosfere di un'opera narrativa, che potrebbe anche non significare più nulla.

Per giudicare Justice League Dark #1 una vaga idea del suo significato bisogna farsela, o almeno mettersi d'accordo su una definizione convenzionale. In che senso qui si tenta di darci una versione dark della Justice League?

Secondo l'Urban Dictionary il termine "dark" sta per : (1) Una mancanza di luce o colorazione vicina al nero (2) Deprimente, spaventoso (3) Un altro modo di chiamare il male (4) Che ha che fare con l'individualità e l'isolamento.

Tutte e quattro le definizioni sono adatte a descrivere le atmosfere di Justice League Dark #1, ma solo l'ultima possiede il magico pregio di descriverne persino la trama.

Enchantress va fuori di testa
"Il tempo rallenta. I neutroni schiantano dentro gli atomi". E ​​una potente maga come Enchantress (in passato leader di Shadowpact, una sorta di Justice League in versione sovrannaturale) scopre di essere impazzita e conforma la realtà adeguandola alla sua follia.

Impossibile non notare in questa premessa l'analogia con House of M, mega evento Marvel Comics del 2005, in cui qualcosa di analogo era stato compiuto dalla strega Scarlet.

Una osservazione estemporanea su questa presessa: House of M era un evento non improvvisato e di vasta portata che per un certo periodo ha influenzato l'intero Marvel Universe.

Qui abbiamo lo stesso scenario di fondo con una portata limitata a una sola serie e del tutto avulsa dalla continuity (Vic Stone, alias Cyborg compare già nel suo aspetto definitivo quando in Justice League #1 non lo è ancora). Per altre serie del rilancio DC Comics non mancano invece riferimenti incrociati.

Shade ha un metodo tutto suo
per scaricare le proprie ex
Questo limita molto la portata dell'albo, costringendo a giudicarlo solo come lettura a sé stante. I troppi personaggi che affollano queste pagine si riducono a marionette vuote, in mancanza di informazioni su quale sarà la loro caratterizzazione definitiva.

Ma come albo a sé, Justice League Dark #1 è assolutamente soddisfacente. Lo sceneggiatore Peter Milligan riesce a essere fantasioso, spaventoso, bizzarro, rapido, angosciante. E magico.

Perché i personaggi dotati di poteri mistici sono quelli che si meritano il centro della scena: Zatanna, John Constantine, Shade - The Changing Man riescono a scalzare i vari Batman, Superman e Wonder Woman che pure compaiono nell'albo. In definitiva, più che dark, questa è una Justice League Weird.

Madame Xanadu: l'unica che pare sapere cosa stia accedendo
Una menzione d'onore la merita la prima splash page: una donna osserva la ripresa televisiva di una autostrada in cui decine di veicoli fuori controllo investono mortalmente altre donne, compresa la stessa spettatrice. June Moore viene introdotta così come colei che sarà epicentro degli avvenimenti futuri.

La scena rende l'idea del thrilling che ogni pagina dell'albo riesce efficacemente a donare, talmente strabordante che con così tanta carne al fuoco non resta spazio per la caratterizzazione dei tanti personaggi. Il ritmo nei numeri successivi dovrà necessariamente rallentare.

Zatanna mette in chiaro con Batman 
chi sono i veri protagonisti della serie 
L'arte di Mikel Janin è di grande preparazione tecnica ma un po' troppo statuaria, anzi veramente rigida, nelle scene d'azione. Può inoltre non piacere che le sue espressioni facciali scivolino sullo stile soap opera.

Ma il sovrannaturale viene reso egregiamente, con l'aiuto di una inchiostrazione all'altezza e degli splendidi bagliori luminosi inquietanti apportati dalla colorazione.

In conclusione, dedicare un titolo a una tale versione parallela della Justice League sembrerebbe una mossa commercialmente indovinata. La suscpence per ora non manca, ma la costruizione di questo universo Dark (anzi, Weird) è ancora tutta in salita.


venerdì 21 ottobre 2011

Recensione: Superman #1 (The New 52)

Grant Morrison ha svolto un lavoro egregio sulla riconcettualizzazione di Superman in Action Comics (il primo numero l'ho recensito qui) e stavolta è riuscito persino a risultare poco cerebrale, più immediato e viscerale rispetto al suo solito, ma il suo ripensamento del personaggio resta comunque qualcosa di ancora largamente teorico.

Al di là della qualità del lavoro che Morrison sta svolgendo e svolgerà, è ovvio che non tutti i lettori di vecchia data accetterebbero a lungo un Superman ricondotto a un fervore adolescenziale col quale risulta difficile empatizzare.

E' in questo Superman #1, quindi, che abbiamo realmente l'occasione di gettare la prima occhiata a quello che sarà il big blue ufficiale del nuovo universo DC, con una narrazione temporalmente spostata di qualche anno avanti, verso un Clark Kent nella sua piena maturità di adulto.

Ci sarebbe tanto da dire su questo albo: venticinque tavole fitte fitte di vignette, baloons e didascalie, rese ancora più dense dallo stile miniaturista del disegnatore Jesús Merino che è molto conforme a quello di George Pérez. Quest'ultimo è impegnato sui testi ma ha anche steso gli schizzi base delle tavole, sicché è a lui che si deve realmente il paneling delle pagine.

Abbiamo una storia di Superman che si mantiene molto entro i binari della tradizione, con l'Uomo d'Acciaio impegnato senza se e senza ma a fare ciò che gli riesce meglio: difendere i deboli, non mettersi in testa megalomani aspirazioni di trasformare il mondo alla radice, e tirare avanti tentando di condurre una vita normale.

Ma nonostante tutto, aleggia in sottofondo anche qui un po' di voglia di strafare, qualcosa cioè di troppo cerebrale e che finisce per rallentare il ritmo della storia. Il tema del numero è infatti una sorta di psicodramma dell'informazione. Il Daily Planet è un giornale in crisi, che infine è stato acquisito da un network televisivo con una cattiva reputazione in termini di tutela dei diritti umani. La sede del giornale viene smantellata, e viene abbattuto l'iconico globo del Planet che campeggia sul grattacielo.

Louis Lane mentre coordina le riprese TV
Il nuovo Vice Presidente è Louis Lane, che condivide con Clark Kent le preoccupazioni sull'approccio poco etico da parte del gruppo, ma che si crogiola nell'illusione di poter trasformare il sistema dall'interno col proprio onesto lavoro. Clark non è della stessa opinone e rompe in malo modo i rapporti con Louis Lane, salvo poi pentirsene e scusarsene con sincero rimorso.

Questo plot base è interlacciato a una trama di azione quasi autoconclusiva (che inizia con un  alieno sull'Himalaya che chiama a raccolta altre presenze soffiando in una sorta di magico corno) ma che resta slegata dal contesto e non permette di capire molto su quella che sarà la sorte della serie dal punto di vista strettamente avvventuroso.

La trama consente di dare sia di Superman che di Clark Kent, un ritratto vivido. L'uomo più potente della Terra resta pur sempre un uomo, con mille dubbi e domande e in fondo anche solo, condannato dalla assoluta integrità dei suoi principi morali. Né il fatto che svolazzi su Metropolis mentre tutti contano su di lui come garante di giustizia, potrà mai farlo sentire più amato. I media non mancano di criticarlo o mettere in dubbio il suo operato e la gente che lo ammira a naso in su dal suolo non sembra immune dal provare una certa invidia.

Quasi tutto in Superman #1 è conforme alla tradizione (altro che reboot) per quella che è l'icona massima del fumetto supereroistico. Anche lo stile grafico, pur splendido, è quanto di più tradizionale e quasì demodè, si possa trovare in giro oggi.

Ma la narrazione è anche incessantemente scandita dalle voci diffuse dagli onnipresenti media televisivi. Scelta coerente con la trama che finisce però per stonare un po' col risultato complessivo comunque raggiunto dall'albo, quello di donarci un ritratto di Superman realmente umano, ben lontano dalla noia che sarebbe tutto sommato lecito aspettarsi da un personaggio con settantatrè anni di storia editoriale alle spalle.

Mentre lo guardate fermo in aria, a fissare sconfortato il globo abbattuto del vecchio Daily Planet, potete cogliere a colpo d'occhio in una singola immagine il supereroe e l'uomo, e la complessità tormentata ed esaltante dell'interazione fra i due. Ognuno indebolisce e al contempo dona forza all'altro... altro che noia!

DC Comics Reboot: The New 52 - tutte le recensioni

giovedì 20 ottobre 2011

Recensione: Blue Beetle #1 (The New 52)

Le incarnazioni succedutesi per Blue Beetle durante gli anni, sono state veramente innumerevoli e anche molto difformi l'una rispetto all'altra. Basti pensare che il personaggio è in circolazione dal 1939, quindi è quasi coetaneo di Superman (editorialmente parlando).

Il genere cucito addosso a Blue Beetle è stato inizialmente quello di un poliziesco avventuroso di epoca pulp, e più avanti negli anni quello del supereroismo spicciolo, a tratti anche venato di qualche nota di umorismo.

Questo Blue Beetle #1, però, è direttamente derivato dall'ultima versione dello scarabeo blu, che è a differenza delle precedenti ha una impostazione più fantascientifica: un'origine cosmica per il personaggio e, sullo sfondo, la galassia intera a fare da scenario.

Il restlyling è ormai definitivo, l'unico appetibile per un personaggio non di punta, e viene ripreso e mantenuto oggi tale e quale perché ben noto al pubblico più giovane grazie alle apparizioni di cui Blue Beetle ha goduto in vari prodotti televisivi targati DC.

Scarabeo (l'arma, non il gioco. Con quel che dice 
è improbabile comporre una parola sensata)
Che su questa serie si punti moltissimo per conquistare un pubblico giovanile è evidente dal notevole talento grafico che è stato messo in opera su questo primo numero. Ig Guara ha un tratto di presa immediata e di grande preparazione tecnica, efficace sia per rendere l'azione cosmica che per suscitare immediata empatia durante gli intermezzi di approfondimento sui personaggi.

Blue Beetle è Jaime Reyes, un adolescente texano al quale il potere del mistico scarabeo cade addosso quasi per caso. La scena di apertura dell'albo è un flashback ambientato su un lontano pianeta. Lo scarabeo viene inizialmente mostrato come un essere che è una sorta di arma biologica (in stile Predator) al servizio di una qualche belligerante razza aliena.

Ma l'arma si ritrova a fuggire nello spazio a bordo di una astronave in miniatura, a forma (indovina un po'?) di scarabeo. L'intervento di una Lanterna Verde farà precipitare l'astronave sulla Terra in epoca Maya.  

Reyes viene contaminato dall'amuleto
Nel tempo presente, Jaime Reyes si troverà casualmente in mezzo a due bande di supercriminali che lottano per contendersi il possesso dello scarabeo (dal loro punto di vista si tratta solo di un prezioso amuleto). E accade così che il ragazzo resti contaminato dal potere dell'amuleto e trasformato in una versione terrestre dell'arma biologica originale.

Numero di semplice narrazione della genesi del personaggio, inframmezzata con la presentazione dell'adolescente Reyes e dei suoi coetanei, l'albo scorre rapidamente senza alcun picco di originalità ma con perfetta e accattivante fluidità dei testi di Tony Bedard e dei disegni di Ig Guara.

Una produzione tecnicamente perfetta, ma esclusivamente pensata per un pubblico adolescenziale nel suo pedante equilibrio fra azione e immedesimazione. Pubblico per il quale la serie sembra avere tutti i numeri giusti per far presa e - forse - persino sfondare di brutto.


Recensione: Captain Atom #1 (The New 52)

Captain Atom #1 è l'esordio di una serie che sembra preannunciarsi come qualcosa di molto raffinato, pur mantenendosi entro un collaudato canovaccio di supereroismo classico.

Con tutta probabilità il titolo migliorerà ancora con i numeri successivi, almeno stando alla notizia recente secondo cui lo sceneggiatore J.T. Krul, al lavoro in contemporanea sia su Green Arrow che su Captain Atom, abbandonerà volontariamente il primo (facendosi rimpiazzare da Ann Nocenti) per meglio dedicarsi al secondo.

Non è immediato comprendere perché Captain Atom sia stato scelto come titolo appetibile per essere inserito fra quelli del rilancio DC Comics. Il capitano è una delle tante proprietà ereditate dall'acquisizione di altre case fumettistiche ormai defunte (la Charlton Comics), sicché DC non ha mai puntato più di tanto a farne un personaggio di primo piano.

Più precisamente, si tratta di Allen Adam, un militare che in seguito a un esperimento scientifico acquista il potere di restringersi a piacimento, volare, riplasmare la sua forma, manipolare l'energia e varie altre cosucce così. Tutto ciò perché l'esperimento lo ha scomposto e ricomposto fino a livello dei singoli atomi.

L'unica spiegazione che trovo per dedicare a Captain Atom un titolo a sé stante sta nel restyling grafico che si è applicato al personaggio. L'aspetto del capitano è ora assolutamente identico a quello del ben più noto Dr. Manhattan di Watchmen, anche lui dotato di poteri atomici

Che il richiamo visivo al Dr. Manhattan - reso universalmente noto dal cinema molto più di quanto il Dottore già non fosse - sia di interesse centrale per la serie, è evidente dalle scelte di colorazione: Captain Atom ha una miriade di delicate sfumature bluastre, rese pazientemente dalle sapienti matite di Freddie Williams II. Tutto il resto attorno a lui è scuro e grigio, fortemente messo in contrasto rispetto al capitano dalle inchiostrazioni a campiture nette e senza bordi (sullo stile grafico del Sin City di Frank Miller).

Sto perdendo il controllo (e sono senza manuale di istruzioni)
Ogni pagina, quindi, obbliga l'occhio a concentrarsi sulla figura di Captain Atom, così comunicando un senso di incontrollabilità della energia dirompente che esso può sprigionare.

Questo risultato è perfettamente funzionale alla caratterizzazione: il numero #1 parte in quarta con l'azione e ci presenta subito il capitano in difficoltà nel gestire la sua forma materiale, la quale sta pericolosamente derivando verso l'instabilità totale a livello atomico e nucleare.

Insomma, Captain Atom è un emulo del Dr Manhattan con lo stesso problema a gestire la sua forma atomica, ma concentrato più sulle conseguenze pratiche che su quelle filosofiche o - peggio - solipsistiche. Le sue preoccupazioni sulla possibile perdita di umanità preannunciano sviluppi narrativi interessanti.

L'albo d'esordio è nel complesso molto godibile, a mio parere, e l'ho già detto. Il vero limite dell'operazione è che questo modellarsi strettamente sul Dr Manhattan rischia di trasformare il tutto in un già visto (già visto in Watchmen, appunto) trasposto però in una forma adatta a palati meno fini. Per ora J.T. Krul è riuscito a confezionare una lettura tutt'altro che noiosa, nonché a gettare spunti di sviluppo ulteriore per il futuro.

E il futuro sarà appunto il vero banco di prova per il titolo. L'entusiasmo dello sceneggiatore c'è e si avverte in ogni pagina. Confido perciò che la serie saprà evolversi molto dinamicamente e trovare una strada dotata di dignità propria.


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