Non si può però dire che i personaggi siano altrettanto familiari a grosse fette di pubblico italiano, perché raramente questo supergruppo del 31° secolo ha usufruito di pubblicazioni nostrane continuative.
La Legione fu creata da Otto Binder, prolifico scrittore di fantascienza di epoca pulp nonché uno degli ispiratori dei racconti robotici del ben più famoso Isaac Asimov. Una (ingenua) fantascienza classica, zeppa di sense of wonder, è appunto il materiale tematico di base per le storie del supergruppo.
I vari reboot cui la Legione è andata incontro durante la sua storia editoriale sono innumerevoli. Questo Legion Lost #1 rappresenta solo l'ultimo ed ennesimo di essi. Per la precisione, il gruppo presentato da Legion Lost non è derivato direttamente dalle precedenti versioni della Legion of Super-Heroes (a cui è dedicata una testata a parte) ma da una miniserie di una decina di anni fa.
Lo spettro di superpoteri di cui sono dotati i componenti della formazione è il solito (già visto innumerevoli volte in tanti altri comics ): teleportatori, telepatici, mutaforma, manipolatori di energia, eccetera eccetera.
Aho... e stateve zitti un po'! |
Dal 31° secolo, i ragazzi della Legione si trovano catapultati nel mondo presente, per risolvere problemi creati da altri visitatori provenienti dal loro stesso futuro. Le azioni sono poco chiare, a meno di non leggere molto attentamente tutte le verbose spiegazioni pseudoscientifiche contenute nei baloons e nelle didascalie. E anche così non è detto che si riesca a capirci qualcosa, perché il tutto è infarcito da una terminologia con la quale solo i lettori di vecchia data possono sentirsi a loro agio.
In tutto lo splendore del Technicolor |
L'approccio dello sceneggiatore Fabian Nicieza sembra invece funzionare. E' più vivido e focalizzato, più razionale e meno improvvisato, ma può essere colto solo da chi conosce già i personaggi. L'albo fallisce cioè nel raggiungere quello che (nominalmente) è lo scopo ultimo dell'operazione The New 52: acquisire lettori nuovi.
Apprezzabili ed elaborati i disegni di Pete Woods, e di impatto (ma forse anche troppo cariche) le sgargianti colorazioni. L'albo sarà anche godibile nel suo approccio carnevalesco - mi fido sulla parola dei vecchi appassionati americani - ma mi sento di sconsigliarlo vivamente ai lettori italiani perché possano passare a qualche altra lettura più pregnante.
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