E un altro modo per annoiarsi è proprio quello di attendersi appunto il già visto. Non è né il primo né l'ultimo film incentrato su una pandemia globale, e si resterebbe delusi scoprendo che la storia si avvia verso toni inattesi.
Cominciamo a dire cosa non è Contagion, allora, perché è meglio sgombrare il campo da aspettative preconcette: non è un film catastrofista o orrorifico, non essendoci l'intento di concentrarsi sulla spettacolarità della tragedia o su scene di isteria di massa; non è un film audacemente fantascientifico, visto che racconta di una possibilità concreta per la quale le organizzazioni sanitarie mondiali sono in costante allerta; e non è neanche un film drammatico, perché si cerca il meno possibile di far empatizzare lo spettatore con qualcuno dei protagonisti in particolare.
Inutile perciò aspettarsi recitazioni indimenticabili da parte delle numerose star del cast (Matt Damon, Gwyneth Paltrow, il Laurence Fishburne di Matrix, la Kate Winslet di Titanic). Toni e i ritmi impongono che nessuna di loro buchi lo schermo, e le recitazioni vengano portate avanti con misura. La storia personale del paziente zero viene costruita con l'unico scopo di motivare la rapida diffusione del virus su tre continenti diversi, e non perché determinante per il personaggio o per gli è attorno. Solo a Jude Law, che ha un ruolo trasversale rispetto ai temi del film, viene concessa una caratterizzazione maggiore per il proprio personaggio.
Contagion, infine, non è neanche un film complottista. Vengono introdotti alcuni temi riguardanti la manipolazione della verità operabile dai media, o da forze governative e commerciali, ma si tratta solo di uno dei tanti elementi della narrazione.
E' piuttosto un film sulle logiche umane. Descrizione, corale, asciutta, quasi cerebrale e molto (forse troppo) distaccata di come reagirebbe la società e l'individuo di fronte a una minaccia di questa portata. Non è un film fatto per incutere paura, ma è una analisi della paura.
Il regista Steven Soderbergh ha ripreso lo stesso registro narrativo, e in parte anche la stessa fotografia, già felicemente utilizzata in Traffic (2000). Scelta azzeccatissima, perché se Traffic raccontava gli aspetti del narcotraffico a più livelli (produzione, spaccio, repressione) anche Contagion è strutturato su più livelli di riflessione e narrazione. In Contagion l'amalgama riesce persino meglio che in Traffic, dato che questo era più nettamente frammentato in storie quasi separate. Eppure il risultato complessivo è inferiore.
Contagion ha un tema più astratto di Traffic perché ruota attorno a un disastro più inconcepibile nelle conseguenze. La portata dell'orrore è tale da non permettere spazio di manovra per una maggiore empatia dello spettatore verso i protagonisti, se non al prezzo di ricavare un film con intenti molto diversi. La scelta di non indugiare troppo nel mostrarci la deriva verso la barbarie, rende deboli le poche scene di questo tipo e inverosimile la tranquillità delle altre.
Il tono risultante, per quanto denso di spunti di riflessione, finisce così per avere qualcosa di documentaristico. E il lieto fine frettoloso è quasi compassionevolmente dovuto allo spettatore. Due elementi che indeboliscono un film che per tanti aspetti è invece davvero notevole.
In conclusione: un'opera a più livelli di lettura che, se non riesce ad avvincere emotivamente, riesce comunque a destare un vivo interesse nello spettatore. Narrazione senza prolissità, senza fronzoli, senza macchiette. Ma, forse non del tutto giustificatamente, anche con meno pathos di quanto ci si aspetti.
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